Natura naturans – È la percezione dell’oltre, rivelato dagli intrecci cromatici dei dettagli dei tronchi contorti di Giuseppe Rossi, a far emergere immediatamente il nesso fra natura, pittura e cultura. È il salutare eclettismo del postmoderno a condurre l’autore alla ricerca di soluzioni allusive di una rappresentazione che diventa altro da ciò che avrebbe potuto descrivere.  Perché sulla tela il tronco nodoso della corteccia cinerea dell’ulivo, i miracoli botanici dei tronchi centenari aggrovigliati e incurvati, le forme che sulla loro scorza paiono assumere le conformazioni di strane escrescenze tumorali, di dorsi squamosi, di cicatrici malamente guarite, di asprezze da mutilazioni belliche, fanno spiccare il volo dell’immaginazione. E la pittura, nata nel colonnato di lignei templi apocalittici, negli anfratti di castagni grandi come cattedrali, realizza l’inevitabile iato tra il vedere e il sentire, per portare in scena un concetto di natura riletta e filtrata da una solida cultura artistica e da una bizzarria arcimboldiana scaturita come da un personale grembo di energie inespresse, quelle che l’artista rivela tramite la materializzazione dell’immagine. Vive sugli alberi Giuseppe Rossi, come Cosimo Piovasco di Rondò, barone di Ombrosa, e da lì osserva il mondo e si sottrae alle sue brutture. E come il barone rampante, da quello spazio speciale e appartato, tesse le trame dei fili inediti di un immaginario che attraversa la memoria e mette in scena il piacere fiabesco del colore e delle forme. E la scorza dei tronchi si allontana (quasi scompare): perché l’impulso espressivo, dalle topografie delle cortecce rugose e nodose, distilla immagini autonome, tra minimi accenni di descrittivismo e sottili orizzonti di nastri cromatici che si agitano nello spazio, quasi volessero farsi beffe nel rammentare (ma solo per piccoli cenni) la distanza da una troppo astrusa pittura analitica. E le linee del colore che rimandano alle cortecce assumono un ritmo franto, a rispecchiare la forma frammentata e interrotta di quelle superfici dense di squarci. Ne nasce un ibrido cortocircuito tra la forza narrativa del segno e di un colore che possiede l’umiltà della tavolozza di Carlo Levi mentre la seduzione delle essenze di figurazione ci porta molto oltre agli orizzonti d’ispirazione, verso un sentiero percorso tra accenni di astrazione e reinvenzione dell’elemento naturalistico.
Osservo così il labirinto di forme cromatiche che organizza l’immagine nello spazio della tela. Osservo le stesure pastose dell’olio che rielaborano la fisionomia di un dettaglio di corteccia che nella sua dimensione straniante sembra giocare sull’equivoca percettività di una pittura sospesa tra figurazione e cenni di naturalismo astratto. Su uno sfondo di notturno nero si rapprende dunque una rappresentazione di un particolare di un albero centenario e mi appare la materia che cattura la bellezza, quella che la natura regala a piene mani se solo si ha la voglia di osservare, il desiderio di vedere. E rammento perciò le Georgiche, il capolavoro virgiliano, il poema didascalico per eccellenza di tutta la letteratura latina. Il libro secondo è dedicato, appunto, alla coltivazione delle piante, alla vite all’ulivo, al castagno…  E nel rimeditare sulla pittura di Giuseppe Rossi avverto l’esplorazione di studiate memorie letterarie, un’introspezione, un’inquietudine esistenziale, una ricerca che porta l’autore ad andare molto oltre il punto di partenza della sua prima illuminazione. Il pittore cerca di avvalorare le storie con i suoi racconti, narra di quella foglia d’ulivo riportata da una colomba, dopo il Diluvio, a indicare a Noè che le acque erano calate. E si sofferma sui precedenti nobili delle Donne albero (1937) di Paul Delvaux, sulle modalità con cui i suoi riferimenti e le sue zoomate su un particolare possano mettere in scacco la mente razionale del riguardante e creare persino effetti surreali. E mi incuriosisco sui versi di Pascoli, quando accenna all’ingresso del Messia a Gerusalemme: «l’ulivo che dia le vermene/pel figlio dell’uomo, che viene/ sul mite asinello».
Anche Carlo Levi amava gli alberi con una passione analoga e ritrasse gli ulivi e i carrubi che circondavano la sua casa di Alassio come creature immerse nella palpitazione del mondo. Raccontava di altri alberi in Cristo si è fermato a Eboli. Riferiva di «tronchi contorti, rovesciati dal vento, pieni di antiche ferite, con la pelle grigia dei mostri arcaici, dove vivono funghi e insetti, erbe e licheni e gli uccelli dei nidi, e gli squarci del legno rosso di sangue vegetale simulano altre forme costellate di occhi».
L’artista rumina sulle sue considerazioni sul mondo vegetale, sul dendronaturalismo, e intanto opera – con la sola tecnica che gli consentono i suoi occhi – mentre le sue mani conquistano il mondo a forza di osservare e dipingere. E ritrova così immagini più profonde delle radici dei suoi alberi e occhieggianti come le cortecce dei loro tronchi. E in questo suo accanimento pittorico, in un mondo in cui risuonano eccessivamente gli scandali e la gloria della Storia, le sue tele ben poco potranno fare per trovare soluzione alle collere e alle speranze degli uomini. Ma le sue tele costituiscono serbatoi inesauribili di speciale sensualità visiva per noi tutti. Perché i colori fattisi corpo rivelano, nella loro evidente illusorietà, un linguaggio della contemporaneità in cui si rinnova, fertilmente creativo, il sodalizio della bellezza e della rappresentazione.
La pittura di Giuseppe Rossi non ha la pretesa di rappresentare fedelmente la realtà, il percepibile della natura, ma, piuttosto, di toccare l’essenza di reale che vive al suo interno, di offrirne un distillato, quasi provocatoriamente svuotato dell’originario aspetto. Il tessuto d’arte che appare allo spettatore restituisce perciò il fascino di immagini felici, tra bianchi cerulei, lacche rosse, bruni terrosi, gialli spenti oppure aranciati ed essenze di muschi che traducono l’esperienza della materia in poesia. Per questo accade che il periderma del fusto restituito per parti, come per piccole monadi, si trasformi, grazie alla trasmutazione alchemico-artistica della pittura, in un organismo alieno ad alto contenuto simbolico e allusivo. Come un Arcimboldo che con le sue bizzarrie e i suoi capricci desublimava l’antica arte del ritratto a favore di inediti virtuosismi onirici e visionari, così Giuseppe Rossi riesce a far scattare, oggi, un processo in cui gli elementi di partenza destrutturati e decomposti producono un’energia che si aggrega in una forma più pura: un «solve et coagula» della migliore tradizione dell’alchimia. Speciali funambolismi del visibile e dell’invisibile che valgono più di mille parole, tra minimali rimandi figurativi, utili per parlare del rapporto uomo natura e delle radici antiche di un giardino dell’eden smarrito. Il pensiero che anima il pittore diventa così sempre più efficace. Perché il suo pensiero forte non è quello delle sue opinioni sul mondo ma quello che si materializza nell’istante in cui la sua visione si fa gesto, quando l’autore comincia a pensare in forma di pittura, a stendere le raffinate stesure del suo colore tra tonalità che fuoriescono da una tavolozza essenziale che mescola il buio e la luce, quando cioè la speciale pastosità dei suoi cromatismi e delle sue intuizioni si rapprende nella fisicità dell’opera.
Così si comprende l’attualità di una pittura in grado di condensarsi in un linguaggio che si inserisce sugli orizzonti del nostro tempo, per interpretare la bellezza, la natura, la forza, i sentimenti, l’umanità dell’artista nelle sue varie possibili e multiformi manifestazioni, anche se questo comporta la quotidiana fatica dell’osservare, del guardare, del pensare e ripensare, dell’amare, del sognare, del provare piacere nel comporre armonie di scorze d’albero.
Ma le superfici dell’artista si esaltano nell’ospitare il soggetto che l’autore vuole portare in scena. È così che davanti ai nostri occhi appaiono opere che portano ben al di là del pur complesso raccontare e dell’intreccio raffinato di riferimenti.
Perché ciò che Giuseppe Rossi propone è un racconto straniante e spesso allegorico, un percorso di intime e fisiche parabole estetiche, uno speciale palcoscenico di ricercata e inquietante poesia in cui i protagonisti sono la materia e la natura, un racconto a tratti ironico ma sempre accattivante e seducente, in cui il destinatario, inevitabilmente spiazzato, è invitato a riflettere, tra mimesi e fantasticheria, sulla ricercatezza in cui si agita la sua poetica.

 

 

Gianfranco Ferlisi