Soriano sul Cimino, 3 Ottobre 2020 Presentazione Mostra Giuseppe Rossi – Quando Giuseppe mi ha contattato, dicendomi che avrebbe avuto piacere di una mia breve introduzione alla sua mostra qui a Soriano del Cimino, luogo dove lui è cresciuto, ho accolto la sua proposta con gioia. Ci siamo conosciuti nel 2014 a Gualdo Tadino, in occasione della sua mostra a Rocca Flea. Con l’opera d’arte scatta un’emozione profonda ed è questo che è avvenuto e che ho percepito ammirando le sue opere. Nel 2019 l’artista ha celebrato i suoi dieci anni di percorso nel Dendronaturalismo con una mostra a Mantova nei mesi di ottobre e novembre di opere realizzate dal 2009 al 2019. Il Dendronaturalismo valorizza e salvaguarda la natura, dedicandosi all’osservazione dell’albero, infatti “dendron” in greco significa “albero”, “forma arborescente”. Esiste anche una rivista, “Dendronatura” che nasce nel 1980, due anni dopo la fondazione dell’Associazione Forestale del Trentino. Giuseppe è particolarmente attratto dagli alberi secolari di ulivi e castagni, colmi di messaggi primordiali e atavici. Nella Mostra attuale sono esposte opere da dove il suo percorso è iniziato fino ad oggi in cui ha creato acquarelli apparentemente distanti dal suo precedente percorso, ma non del tutto. Partiamo dalle opere ad olio. Lui stesso mi ha detto che a Ostuni ci sono olivi di 2000/2500 anni; in Sardegna, nella Gallura, un olivo di 3800 anni. Il tempo si stabilisce tramite carotaggi o tramite esami al carbonio. Ad Ansedonia, nell’Argentario, ci sono olivi in collina accanto a resti di templi, quindi le radici affondano sul terreno formato da cocci, da detriti che appartenevano al passaggio dell’uomo. Sono radici che non assorbono solo sali minerali, ma la storia dell’uomo, esprimendola con colori caldi e freddi, presentandosi nodosi, contorti, con tronchi scuri, quasi neri o con tronchi sbiancati. Rappresentano qualcosa che è avvenuto nel tempo. La storia della pianta è la storia dell’uomo, si incarnano vicendevolmente. D’altronde l’artista ha vissuto la sua adolescenza tra le betulle della Callara, i boschi di Manziana, i castagni, da lui percepiti come mastodontici patriarchi, come monumenti naturali. Nei suoi oli Giuseppe rivela l’essenza dell’anima delle piante, quasi che esse stesse prendano le sembianze dell’uomo, ne assurgono gli aspetti introspettivi. Sembra che l’elemento vegetale scompaia e vengano fuori altre forme. Elementi che possono sembrare estranei all’umano prendono sembianze umane o faunistiche o vegetali come i fiori (vedi Arcimboldo). Le sue opere esaltano la percezione visiva e sensoriale, ci immergono in viaggi introspettivi e pongono l’attenzione sui particolari che sfuggono all’uomo per distrazione. L’artista decontestualizza ed estrapola il dettaglio, di piante vetuste e millenarie, attraverso l’incavo di un tronco vuoto, o la sezione di un tronco, con pennellate dense di colore, dal bruno, all’arancio, dal giallo paglierino al bianco glaciale al verde luna, dal rosso Venezia al bruno Van Dick che realizza con strisce di colore fluide, quasi scie acquatiche. Non a caso lui è anche un subacqueo, quasi che gli abissi marini e le sezioni degli alberi siano entrambi testimoni dell’unica madre terra. Sembra di intraprendere un viaggio ancestrale in questi tronchi saldi, in questa fissità degli alberi e nelle loro radici segrete, come monumenti vegetali. Mentre li crea, l’artista scopre il titolo da dare, sono gli stessi che ispirano il proprio titolo. Ci sono titoli come “Folletto”. “Presenze”. “Alien dei boschi”, “Intrigo intestinale”, titoli che destano curiosità. Sono i quadri che dicono all’artista come si chiamano. Nella percezione visiva, da lontano scorgi l’albero (“sono un albero e so raccontare”, sembrano infatti dire i castagni e gli ulivi, come se parlassero della loro storia), se ti avvicini scorgi l’aspetto autentico, perdi il dato naturalistico, come nei dipinti di Monet che da lontano ti appaiono realistici, da vicino scopri un magma senza forma di colori freddi e chiari o caldi e intensi. Mi appare il ritmo obliquo del Vorticismo inglese, le opere di Picabia e Kandiskij; Umberto Boccioni definiva l’arte come risultato finale di un vorticismo di emozioni tramite la raffigurazione di forme a vortice che esprimono forza, energia, movimento e dinamismo. E penso al Raggismo russo, primo movimento d’arte non figurativo di origine russa, che vedeva lo scopo della pittura nel cogliere gli effetti dell’inglobamento dei colori dello spettro, della rifrazione dei raggi di luce che colpiscono gli oggetti (Natalia Goncarova, Larionov, Malevic). Ancor più possiamo cogliere questo aspetto nell’acquarello. L’artista, per essere tale, sappiamo che deve essere in continua trasformazione. Qui si è ispirato all’eucalipto australiano, chiamato anche eucalipto arcobaleno, o eucalipto radiato che è un’esplosione di colore. L’artista introduce una nuova visione, elimina la plasticità e la densità cromatica e approda a pure forme geometriche che evocano esplicitamente la fluidità dell’acqua, delineata con la freschezza di colori e di linee diverse, leggere trasparenti e luminose, nette rispetto alle altre opere dove prevale la forma. Qui coglie più l’astrazione, un aspetto geometrico, come una sorta di lente di ingrandimento. La tela mostra un effetto dinamico bidimensionale, ha inserito in sé il movimento nello spazio e il movimento indotto dallo scorrere del tempo. Sentiamo il suono di cascate, attraverso i colori scroscianti. Auguste Rodin diceva che l’artista è il confidente della natura, a cui rivela il suo spirito e la sua essenza.

 

Francesca Cencetti